
IN 5 MINUTI. Ripensare il commercio di prossimità nell’era dei flussi globali. Conversazione con Aldo Bonomi, sociologo e fondatore del Consorzio Aaster.
In un’epoca dominata dai grandi flussi digitali e dalla logica dell’istantaneità, il commercio di prossimità può ancora rappresentare una leva strategica per rigenerare territori e comunità?
Ne abbiamo parlato con Aldo Bonomi, sociologo, fondatore del Consorzio Aaster e osservatore attento delle trasformazioni urbane e sociali. Il punto di partenza è una riflessione sul concetto stesso di prossimità e sul ruolo che i negozi di vicinato possono avere oggi, tra sfide globali e bisogni locali. Perché, se riletta con una visione contemporanea, la prossimità non è solo una nostalgica appartenenza, ma può diventare motore di innovazione sociale ed economica.
Professor Bonomi, in un mondo sempre più connesso, come cambia il concetto di prossimità? Cosa si può fare affinché la prossimità non resti un ricordo del passato?
«L’identità è il punto di partenza per qualsiasi comunità economica e sociale. Nel caso dei commercianti, significa riscoprire il ruolo storico dei “mercanti”, che non erano solo venditori, ma attori fondamentali della vita urbana. Essere “mercanti associati” non è solo un’etichetta, bensì una missione che lega la città alla campagna, il commercio alla comunità».
Quali strategie possono adottare oggi i negozi di vicinato per essere ancora centrali nella vita delle città?
«Il concetto stesso di “supermercato di prossimità” sembra una contraddizione. I supermercati tradizionalmente appartengono alla categoria dei “non-luoghi”, spazi anonimi che si trovano ovunque e in nessun posto. Ma se un supermercato mantiene un’identità territoriale forte, se si radica nella città media e va incontro alle sue esigenze, allora può diventare parte della comunità, senza essere invece un’entità estranea».
Cosa vuol dire costruire un’economia urbana più giusta e inclusiva?
«Le città sono il punto di incontro (e spesso di scontro) tra i flussi globali e le economie fondamentali della vita quotidiana. Bisogna però tener conto delle economie fondamentali: abitare, nutrirsi, spostarsi, crescere una famiglia: sono questi i pilastri di un’economia sociale che rischia di essere schiacciata dalle logiche globali e dalla spersonalizzazione portata dalla tecnologia».
In che modo i negozi di vicinato possono contribuire a progettare la città del futuro?
«I commercianti non sono solo venditori: sono gli attori dell’“ultimo miglio”, quelli che traducono le esigenze delle persone in servizi concreti. Sono anche progettisti di luoghi, perché decidere cosa vendere, come organizzare lo spazio, come interagire con i clienti significa modellare il tessuto urbano. Riscoprire l’ultimo miglio significa ridare valore alla dimensione locale, al commercio di vicinato, ai luoghi fisici di incontro. In un mondo in cui Amazon porta tutto sotto casa con un click, la prossimità non può essere solo un’opzione: deve diventare una strategia per ricostruire comunità e territori».
Quali sono i tratti distintivi di una comunità che sa coniugare lavoro, prossimità e cura del territorio? E quale ruolo possono giocare i consorzi di commercianti?
«Essere una comunità operosa vuol dire unire il lavoro con la cura del territorio e del sociale. Se il commercio è solo mercato, senza radicamento, diventa un processo impersonale. Se invece si lega alla comunità in cui opera, diventa un motore di sviluppo sostenibile e inclusivo».
Come si può conciliare la spinta verso la digitalizzazione con l’esigenza di conservare l’identità dei luoghi?
«La sfida è usare la tecnologia senza farsi fagocitare da essa. Non basta digitalizzare i servizi: bisogna progettare i luoghi in modo che favoriscano la relazione, l’incontro e la vita sociale. In questo senso, i commercianti possono diventare protagonisti, ripensando gli spazi in cui operano non solo come punti vendita, ma come hub di socialità e servizi per il territorio».